Quel che vi
serve sapere: mentre in Wakanda la Pantera Nera in carica deve confrontarsi con più di
un problema, le cose non vanno meglio a New York, dove le cose si stanno
facendo incandescenti per il Leopardo Nero e la sua partner Okoye.
Di Carlo
Monni
(con tanti
ringraziamenti a Mickey per i preziosi consigli)
Capitolo 24
Palazzo
Reale del Wakanda.
M’Koni rimase
silenziosa. Dire che il suo cugino adottivo non le era molto simpatico sarebbe
stato definibile come delicato eufemismo. K’Winda, o Hunter per dirlo in inglese, era
stato ritrovato da Re T’Chaka tra i rottami di un aereo precipitato. Era poco più di un neonato e T’Chaka decise
di adottarlo e crescerlo come se fosse veramente suo figlio infischiandosene
del fatto che fosse bianco. Quando fu adulto creò apposta per lui il ruolo del
famigerato Lupo Bianco e ne fece il capo degli Hatut Zeraze, la polizia segreta
del suo regno, che T’Challa aveva poi sciolto una volta salito al trono.
K’Winda aveva da
sempre covato risentimento verso T’Challa ed il resto della famiglia reale da
cui si sentiva escluso in quanto bianco, così aveva deciso di lasciare il
Wakanda fondando un’agenzia di mercenari attiva in vari fronti caldi del mondo.
In seguito aveva anche partecipato ad un complotto, fortunatamente fallito, per
detronizzare lo stesso T’Challa.[2]
Ora sembrava
essersi pentito e si era schierato senza esitazione al fianco del fratello
adottivo durante la crisi del Leone Nero,[3]
ma ci si poteva davvero fidare di lui? M’Koni ne dubitava e dubitava anche di
essere alla sua altezza in un eventuale scontro corpo a corpo. Per giunta in
quel momento era nuda, immersa quasi fino al collo nell’acqua della piscina e
questo la faceva sentire decisamente in stato di inferiorità.
Fu il Lupo Bianco a
rompere il silenzio:
<Mi dispiace di
non essere chi speravi, ma stai tranquilla, non ho cattive intenzioni.>
<Posso
fidarmi?> replicò la Regina del Wakanda.
<Non ho forse già
ampiamente dimostrato la mia lealtà al Wakanda ed alla sua Corona? Quali altre
prove devo darti?>
<Uhm, hai
ragione. Ti darò il beneficio del dubbio.>
K’Winda replicò con
una risatina mentre si toglieva la maschera per poi iniziare a sfilarsi anche
il costume.
<Che cosa stai
facendo?> urlò M’Koni.
<Non pretenderai
che scenda in acqua vestito, spero.> ribatté lui <E, ti prego, non fare
la scandalizzata. Non sono certo il primo uomo che vedi nudo, anche se quasi
certamente sono meglio del tuo ex marito.>
Mentre parlava
K’Winda si era ormai denudato e si stava calando nella piscina.
<Temperatura
eccellente.> commentò.
<Come ti
permetti?> sbottò M’Koni.
<Hai ragione,
avrei dovuto seguire il protocollo e chiedere il tuo permesso, ma sai come sono
fatto. Forse, però, ti riferivi al mio commento sulla virilità del tuo ex.
Perdona la mia vanità, ma credo di aver ragione. Quell’idiota di Wheeler ha
fatto una sola cosa buona nella sua inutile vita: andare a schiantarsi contro
l’aeronave del Dottor Crocodile facendola saltare.[4]
Ammetto, però, che aveva buon gusto in fatto di donne. Ora che ti vedo meglio,
devo riconoscere che sei un bel bocconcino.>
<Sei un gran
bastardo.> ribatté M’Koni.
<Non lo nego.>
replicò K’Winda <Ma tu non atteggiarti a santarellina. È abbastanza evidente
che non speravi nell’arrivo di Khanata solo per fare una nuotatina in
compagnia. Non è così?>
M’Koni tacque e lui
proseguì:
<Tranquilla. Non
ho intenzione di attentare alla tua virtù. Posso essere tante cose, ma non ho
mai preso una donna con la forza.>
<E dovrei
crederti? E le prigioniere che tu e i tuoi uomini portavate nelle vostre
segrete quando eri il capo della polizia segreta?>
<Nessuno le ha
mai violentate e chi ci ha provato è stato severamente punito, ma non mi
aspetto che tu mi creda.>
Sembrava sincero,
ma M’Koni rimaneva scettica. Il fratello adottivo dalla pelle bianca di
T’Challa non era certo uno stinco di santo e se davvero puntava a sedurla non
avrebbe mai ammesso con lei certe scomode verità.
Harlem, New
York City.
Le prime luci del
giorno filtrarono attraverso la finestra svegliando Monica Lynne. La giovane
donna sbattè gli occhi cercando di ricordare cosa le fosse successo. L’ultima
cosa che riusciva a ricordare era che si trovava nel suo camerino all’Harlem
Club, ma adesso era chiaramente nel suo letto con un forte mal di testa ed un
saporaccio in bocca. Come ci era arrivata? Cosa le era successo?
Improvvisamente
sulla soglia apparve Abe Brown con in mano una grossa tazza da cui usciva del
fumo. Il massiccio nero fece una specie di sorriso e le disse:
<Ti ho portato
del caffè, bevilo.>
Sembrava più un
ordine che un consiglio. Monica prese la tazza e se la portò alle labbra, poi,
dopo aver bevuto qualche sorso, chiese:
<È successo
ancora, vero?>
<Stavolta è
stato molto peggio.> rispose Abe, poi si sedette sul bordo del letto ed
aggiunse <Dobbiamo parlarne seriamente.>
Gramercy
Park, Manhattan, New York City.
Vera Konstantin
aveva l’aria decisamente preoccupata mentre si rivolgeva a Vlad l’Impalatore
che stava controllando le sue armi:
<Sei davvero
sicuro che sia una buona idea occuparti personalmente di questa faccenda?>
<Mi stavo
facendo anch’io la stessa domanda, papà.> intervenne Nicolae, il figlio di
Vlad <Posso benissimo occuparmene io.>
Vlad Dinu, questo
era il suo vero nome, rimase per qualche istante silenzioso. Quei due erano i
soli che potessero permettersi di contestare le sue decisioni ed erano anche i
suoi più stretti collaboratori nella direzione della sua impresa criminale.
Sotto la facciata di un imprenditore di successo emigrato dalla Romania Vlad
era in realtà il capo di un’organizzazione dedita al traffico di esseri umani
per farli prostituire. La sua spietatezza gli aveva fatto guadagnare il
sinistro soprannome di Impalatore e si sussurrava che dell’originale
Impalatore, noto anche come Dracula, fosse un diretto discendente, una voce
che, vera o meno che fosse, forse aveva fatto circolare lui stesso.
Squadrò l’uomo e la
donna davanti a lui ed infine rispose:
<Quella troia di
Angela ha osato lasciarmi e si è portata con sé mio figlio, tuo fratello,
Nicolae. Non posso tollerarlo e nemmeno lasciarmi sfuggire l’opportunità di
punirla personalmente e riportare a casa Gabriel. Tu, Vera, devi pensare a
gestire il prossimo carico e tu, Nicolae, devi supervisionare l’eliminazione
dei testimoni contro di me, il che chiude la questione.>
<E se quella
tizia dell’altro giorno[5]
ti stesse ingannando? Se fosse solo una trappola?> insistette Vera.
<Allora morirà
lei per prima.> tagliò corto Vlad.
Era chiaro che non
avrebbe ammesso altre repliche.
Birmin Zana,
capitale del Wakanda.
Il posto era una
villa isolata situata ai margini della capitale. Il suo proprietario professava
idee estremamente conservatrici, ma non disdegnava alcune comodità importate
dall’Europa.
Il suo nome era
Akaje, aveva un’età indefinibile, probabilmente oltre i sessant’anni,
corporatura robusta, occhiali, l’aria di una persona colta ed autorevole.
Seduto su una
comoda poltrona del suo salotto fece scorrere il suo sguardo sugli uomini che
erano suoi ospiti in quella riunione ed alla fine parlò:
<Le elezioni
sono vicine e noi dobbiamo provare a vincerle. Se ci riusciremo, conquisteremo
il potere pacificamente e potremo portare il Wakanda verso la giusta
direzione.>
<E se non ci
riuscissimo?> intervenne uno dei presenti <Questa storia delle elezioni è…
è… è un’indegnità. Un’altra delle idee deviate di quella donna che sta
usurpando il nome ed il titolo di Pantera Nera.>
<In realtà è
stata un’idea di T’Challa, ma lasciamo perdere.> replicò quietamente Akaje
<Se per disgrazia dovessimo perdere, ho già pronte adeguate
contromisure.>
<Me lo
auguro.> intervenne un altro <Già abbiamo dovuto sopportare l’indegnità
di un matrimonio tra due uomini[6]
ed ora M’Koni ha autorizzato due delle Dora Milaje a sposarsi tra di loro.>
Akaje sospirò.
Sarebbe stata dura tenerli a freno, ma doveva riuscirci.
Non molto distante
qualcuno stava ascoltando la conversazione grazie ad una microspia nascosta
nella stanza.
E così Akaje
intendeva andare fino in fondo con i suoi piani. Tanto peggio per lui perché la
persona che lo stava spiando era determinata a farli fallire.
Palazzo
Reale di Wakanda.
La mente di M’Koni
era distratta da quello che era successo la notte precedente.
Era stata sciocca.
T’Challa non si sarebbe mai fatto sorprendere come era successo a lei ed
avrebbe reagito in maniera ben diversa.
<Scusa, M’Koni…>
disse l’uomo seduto davanti a lei. <… ma ho la sensazione che non mi stessi
ascoltando.>
<Scusami tu,
Taku.> replicò lei <Non sta bene che una regina stia con la mente altrove
durante un colloquio di Stato con il suo Primo Ministro.>
<Se vuoi
condividere con me le tue preoccupazioni…>
M’Koni esitò, poi
si decise.
<Credi che ci si
possa fidare del Lupo Bianco?> gli chiese.
<Durante la
crisi del Leone Nero si è comportato da leale suddito del Wakanda. Se non ci
avesse fatto evadere, oggi saremmo morti tutti e due.>
<Non hai
risposto.>
<No, non mi
fido. Una volta ha cercato di uccidere T’Challa, di impadronirsi del trono.
Dice di essere cambiato, di essere pentito delle sue azioni di allora e forse
ci crede davvero. Forse vuole davvero il bene del Wakanda, ma non sono affatto
convinto che il suo concetto di bene sia lo stesso che abbiamo noi.>
Era la risposta che
M’Koni temeva.
Le piacesse o meno,
il Lupo Bianco era un’incognita con cui prima o poi avrebbe dovuto fare i
conti.
Brooklyn,
New York City.
In attesa della
ristrutturazione del Centro di Detenzione Metropolitano di Manhattan toccava al
suo omologo di Brooklyn ospitare praticamente tutti i detenuti per reati
federali della Grande Mela il che, unito alla cronica mancanza di personale,
rendeva complicati i trasferimenti dei detenuti stessi per i processi, specie
quando questi ultimi dovevano svolgersi presso il Tribunale Federale di
Manhattan.
In quel momento due
furgoni del Federal Bureau of Prisons stavano attraversando il famoso ponte che
univa Brooklyn a Manhattan ed i suoi occupanti erano del tutto ignari di essere
spiati.
A farlo era una ragazza
bionda dai capelli corti che vestiva una tuta aderente in pelle marrone e stava
accovacciata su uno dei piloni del ponte. Era molto giovane, ma era anche molto
determinata. L’avevano incaricata di non far arrivare vivo al processo un certo
particolare testimone che in questo momento si trovava in uno dei due furgoni
che stava osservando dall’alto e, se ne avesse avuto la possibilità, far
evadere uno degli imputati nello stesso processo che si trovava nell’altro.
Imprese difficili,
ma non impossibili e lei adorava le sfide difficili.
Con un agile balzo
abbandonò il pilone dove si trovava ed atterrò sul tettuccio del secondo
furgone. Ora aveva a disposizione solo pochi secondi per fare quello che era
venuta a fare.
Con incredibile
rapidità piazzò una mini carica esplosiva sul portello posteriore causandone
l’apertura, quindi fece una capriola e si proiettò all’interno dove c’erano
solo tre persone: due guardie carcerarie ed il prigioniero che era un
afroamericano dai vestiti sgargianti.
Prima che le
guardie potessero abbozzare una reazione la ragazza aveva già lanciato dei
piccoli dardi che le colpirono al collo. Un secondo dopo stramazzarono al
suolo.
<Sono solo
svenuti.> disse la ragazza avanzando verso il prigioniero <Non mi piace
uccidere se non è assolutamente necessario.>
Parlava un ottimo inglese
con appena una traccia di accento che il prigioniero non era in grado di
identificare. Non che gli importasse.
<Chi… sei? Cosa
vuoi?> balbettò.
<Il mio nome non
è importante, Zebra Daddy. Vlad l’Impalatore ha decretato la tua morte ed io
sono qui per eseguire la sentenza.>
Nella mano destra
la ragazza ora stringeva un pugnale. Lo aveva appena lanciato verso la gola
dell’uomo paralizzato dal terrore quando una freccia saettò nell’aria e colpì
il pugnale facendolo ricadere sul pavimento del furgone.
<Chi?>
esclamò la ragazza girandosi di scatto.
Davanti a lei c’era
una donna di colore che indossava un corto ed aderente abito rosso e portava una
maschera domino sul viso. Nella destra stringeva un arco.
-Io.- disse
semplicemente.
Aeroporto
internazionale John Fitzgerald Kennedy, Queens, New York City.
Il gruppetto che
uscì dal terminal dei voli provenienti dall’Africa attirava decisamente
l’attenzione. C’era un uomo dalla pelle color ebano, capelli e barba bianchi.
Anziano sì, ma dal fisico ancora prestante. La donna al suo fianco aveva la
pelle più chiara ed anche lei non era più tanto giovane, ma era ancora
decisamente molto bella ed aveva indubbiamente un discreto fascino.
Gli altri davano
l’impressione di essere guardie del corpo e, cosa insolita, due di loro erano
donne. Fisico da modella, ma sguardo duro che faceva capire che non sarebbe
stato saggio farle arrabbiare.
I due che stavano
proteggendo dovevano essere dei VIP, era il pensiero di chi incrociava il loro
cammino.
Tutti erano vestiti
all’occidentale, ma non ci potevano essere dubbi sulla loro provenienza: una
qualche nazione dell’Africa Centrale o Meridionale. L’uomo anziano era
probabilmente il presidente della sua nazione e la donna al suo fianco sua
moglie.
La verità non era poi
troppo diversa tutto sommato.
I due salirono su
una limousine, con autista e con targa
diplomatica, che si immise subito nel traffico.
Gli osservatori più attenti avrebbero potuto decifrare la targa come
appartenente al Regno del Wakanda.
All’interno della
limousine il Principe S’Yan, nuovo ambasciatore del Wakanda alle Nazioni Unite,
si rilassò. Aprì uno scomparto ed apparvero una bottiglia e due bicchieri.
<Autentico
cognac francese.> disse sorridendo alla donna davanti a lui <Ne vuoi un
sorso?>
<Ti ringrazio,
ma non adesso.> replicò Ramonda, Regina Vedova del Wakanda.
Guardò fuori dal
finestrino e disse:
<Questa città mi
sembra diventata molto più caotica dall’ultima volta che ci sono stata. Mi
chiedo ancora perché mi sono fatta convincere a venirci.>
<Merito del mio
fascino, suppongo.> replicò S’Yan con un sorriso sornione.
Ramonda rise
divertita e ribatté:
<Non darti
troppe arie. La verità è che anch’io avevo bisogno di cambiare aria.>
<Ed il fatto che
T’Challa si sia trasferito proprio qui è solo una coincidenza, giusto?>
<Giusto. Ci ho
ripensato. Credo che accetterò quel cognac.>
S’Yan fece una
risatina e versò il liquore nel bicchiere.
Palestra del
Palazzo Reale del Wakanda.
Quella in corso era
una delle dure sessioni di allenamento a cui il vecchio Zuri sottoponeva
regolarmente il giovane Principe T’Chanda altrimenti noto come Billy Wheeler,
unico figlio della Regina regnante M’Koni.
Ormai era
abbastanza grande e doveva essere preparato al giorno, si sperava molto
lontano, in cui il trono sarebbe passato a lui.
Il vecchio Mendinao
si occupasse pure degli infusi a base di erbe sacre e di tutto il contorno mistico,
al resto avrebbe pensato lui.
Bisognava dire che
il ragazzo si stava impegnando parecchio. Un giorno sarebbe diventato una
grande Pantera Nera. Un giorno, ma non oggi.
Era già la seconda
volta che veniva atterrato da Kono, il figlio maggiore del Ministro della
Difesa W’Kabi.
<Basta così!>
disse Zuri <Faremo una breve pausa.>
<Proprio ora che
lo stavo battendo.> si lamentò Kono.
<Al prossimo
giro avrei vinto io.> replicò Billy.
<Nei tuoi sogni,
americano. Sono io il più forte.>
<Il più
sbruffone, sicuramente.>
Un po' di sana
rivalità poteva essere positiva, pensò Zuri, purché non degenerasse. Far sì che
questo non accadesse era un altro dei suoi compiti.
Brooklyn,
New York City.
La giovane bionda
esclamò:
<Tu sei l’amica
del Leopardo Nero!>
<Mi chiamo Okoye…>
replicò la nuova arrivata <… e ti offro una possibilità di arrenderti
pacificamente. Ti prego… rifiutala.>
<Ce l’hai con me
perché ho cercato di uccidere il tuo amichetto? Non era niente di personale,
solo lavoro.>
<Per me è una
questione molto personale, invece… Anastasia.>
<Tu sai chi sono?>
<Non è stato
difficile scoprirlo sapendo cosa cercare: Anastasia Sergeievna Kravinova,
figlia minore di Kraven il Cacciatore ed assassina a pagamento. >
<Vuoi impedirmi
di uccidere questo verme? Provaci.>
Con una mossa
repentina Anastasia lanciò dietro di sé un affilato pugnale che si piantò nella
gola di Zebra Daddy. Contemporaneamente saltò contro Okoye colpendola
all’addome e facendole perdere la presa sul suo arco.
Sbilanciata, Okoye
riuscì ad evitare di cadere fuori dal furgone aggrappandosi ai lati del
portello, ma ciò la rese vulnerabile agli attacchi della sua avversaria che era
evidentemente esperta di arti marziali.
Riuscì a non
perdere la presa ed usò le gambe per bloccare la ragazza.
In quel momento il furgone,
ormai nella corsia d’emergenza, si arrestò ed il contraccolpo proiettò entrambe
le donne fuori dal veicolo.
Per loro fortuna
sapevano come cadere in modo da attutire l’impatto al massimo.
Lo scontro proseguì
al di fuori senza che una delle due riuscisse a prevalere sull’altra.
Okoye riconobbe lo
stile del krav maga, l’arte marziale israeliana, ma anche lei era un’esperta in
quel tipo di lotta. Lo scontro avrebbe potuto andare avanti all’infinito.
Improvvisamente si
udì una voce stentorea:
<Non
muovetevi!>
L’autista del
furgone e la guardia che era con lui erano scesi e stavano puntando le loro
pistole contro di loro.
Anastasia valutò
rapidamente la situazione: avrebbe potuto sbarazzarsi facilmente dei due
poliziotti, ma c’era anche Okoye ed in lontananza si udiva già il suono di sirene.
Prese una decisione
e, contando anche sul fatto che gli agenti avrebbero esitato prima di sparare
ad una ragazzina della sua età, spiccò un balzo che la portò oltre il parapetto
dritta nel fiume.
Okoye non perse
tempo e la imitò.
In breve
scomparvero entrambe sotto le acque.
Ponte di
Brooklyn, New York City.
Il furgone
corazzato di Codice Blu, l’unità SWAT anti superumani della Polizia di New York,
aveva fatto presto ad arrivare sulla scena una volta lanciato l’allarme, visto
che il suo quartier generale era proprio a Brooklyn, ma non abbastanza presto
purtroppo. Al suo arrivo era già tutto finito.
Ascoltando il
resoconto degli agenti del BOP,[7]
il Tenente Charlotte Jones si fece un’idea abbastanza precisa: l’amica del
Leopardo Nero intervenuta per impedire l’omicidio di Zebra Daddy, ma anche lei
era arrivata troppo tardi.
<È ancora
vivo!> esclamò uno dei paramedici arrivati da poco sul posto.
<Cosa?>
esclamarono pressoché all’unisono Charlotte e i due Agenti Federali appena
scesi dalle loro auto.
<Per un puro
miracolo la lama non ha tranciato di netto la carotide.> spiegò il capo dei
paramedici mentre Zebra Daddy veniva caricato su un’ambulanza <Non so se e
quanto reggerà, però.>
<Non potrà
testimoniare oggi, questo è certo.> disse l’Agente Speciale del FBI Donna
Brandon, una bella ragazza dai lunghi capelli rossi e con gli occhiali che
dimostrava meno di trent’anni, <E se non dovesse sopravvivere Vlad Dinu non
sarebbe condannato.>
<Suggerisco di
pensare una cosa alla volta.> intervenne l’Agente Speciale Supervisore
Philip Corrigan <Dobbiamo ancora identificare la killer e soprattutto
prenderla. Cosa sappiamo di lei?>
<Nessuno l’ha
vista bene purtroppo. Mi occuperò io stessa di confrontare le descrizioni
sperando di ricavarne qualcosa di buono.>
Buona fortuna,
pensò Charlotte ben lieta che la patata bollente non spettasse a lei.
Tribunale
Federale di Manhattan.
La notizia
dell’attacco sul Ponte di Brooklyn aveva fatto presto ad arrivare in aula.
Con uno dei
testimoni più importanti impossibilitato a comparire e forse perfino a
sopravvivere, il giudice non ebbe altra scelta che rinviare la causa a data da
destinarsi.
Vlad Dinu represse
un sorriso cattivo e rimase compunto recitando fino in fondo la parte dell’uomo
d’affari ingiustamente accusato, ma dentro di sé era decisamente soddisfatto.
La ragazza mandata da Miss Montenegro aveva fatto un buon lavoro stavolta.
Uscendo dall’aula
non badò all’uomo di colore che gli rivolse uno sguardo duro. Dopotutto
l’assistente sociale Thomas Chalmers non era nessuno per lui e non poteva
immaginare che fosse in realtà il Leopardo Nero.
Una volta fuori
dall’aula Vlad si rivolse all’uomo che aveva sostituito la sua avvocatessa Jeri
Hogarth, che non aveva potuto essere presente a causa di non meglio specificati
problemi personali:[8]
<Adesso che
succederà, Mr. Byrnes?>
<Aspetteranno di
vedere cosa accade al testimone. Il caso si basa molto sulle sue dichiarazioni
e se dovesse morire senza aver testimoniato il Procuratore potrebbe decidere di
lasciar cadere le accuse.> rispose Timothy Byrnes.
Il che era proprio
quello che Vlad era determinato a far accadere.
Palazzo
della Corte Suprema dello Stato di New York a Manhattan.
Per qualche oscuro
motivo di cui probabilmente si è ormai perso il ricordo, i Tribunali di primo
grado dello Stato di New York sono chiamati Corte Suprema mentre il giudice di
ultima istanza è denominato Corte d’Appello, cosa che non manca di confondere
chi viene da fuori.
La questione non
interessava Thomas Chalmers in quel momento. Il suo interesse era focalizzato
sulla giovane donna afroamericana che stava in piedi davanti al giudice che le
si stava con voce ferma:
<A quanto pare,
Miss Conroy, tutti i rapporti che mi sono arrivati sono più che positivi: il
funzionario del Parole Board e l’assistente sociale che si sono occupati del
suo caso, il Reverendo Garcia presso cui ora lavora, tutti hanno parlato in suo
favore, per cui dichiaro terminato il suo periodo in libertà vigilata. Lei è di nuovo una donna libera, Miss Conroy,
faccia buon uso di questa libertà.>
<Sì, Vostro
Onore.> mormorò la ragazza.
<Può andare
adesso.>
La giovane donna si
voltò e fece per uscire. A quel punto un giovanotto, anche lui afroamericano,
si alzò e le andò incontro. Un breve attimo di esitazione, poi i due si
abbracciarono e la ragazza cominciò a piangere.
Seguiti da un
sacerdote di colore e da Thomas Chalmers i due uscirono dall’aula.
Una volta
all’aperto la ragazza si asciugò le lacrime e disse:
<Io vi devo
ringraziare tutti. Senza di voi ora sarei in carcere e mi avrebbero tolto mio
figlio.>
<Sciocchezze,
Nyla.> replicò il Reverendo Garcia <Sei stata tu a dimostrare di essere
una madre responsabile e di poter offrire a tuo figlio un futuro decente. Noi
ti abbiamo solo offerto l’opportunità di farlo.>
<Che intendi fare adesso, Nyla? Ora non sei più
legata alle regole della libertà condizionata. Puoi andare dove vuoi, fare
liberamente ciò che vuoi.> le chiese il ragazzo afroamericano il cui nome
era Jody Casper.
La ragazza che si
faceva chiamare Nyla Skin abbozzò un sorriso e rispose:
<Mi piacerebbe
continuare con il mio lavoro… se il Reverendo Garcia mi vuole ancora come sua
assistente.>
<Ma certo!>
rispose il Religioso <Sei la migliore che abbia mai avuto.>
Ogni tanto le cose
vanno per il verso giusto, pensò Chalmers, ma lui continuava ad avere i suoi
problemi sia come Thomas Chalmers che come Leopardo Nero.
Vlad l’Impalatore
era ancora libero e non era tipo da restare con le mani in mano. Presto avrebbe
tentato qualcosa per sbarazzarsi dei suoi nemici e bisognava fermarlo.
L’uomo che era
stato T’Challa, sovrano del Wakanda sapeva come fare, ma avrebbe funzionato?
Lo avrebbe scoperto
presto.
CONTINUA
NOTE DELL’AUTORE
Molto poco da dire su questo
episodio, quindi partiamo senza indugi:
1)
Per una volta i
due titolari di questa serie si prendono una pausa dall’azione e si concentrano
sulle loro vicende personali lasciando tutto il divertimento ad Okoye, ma non
preoccupatevi: nel prossimo episodio si rifaranno alla grande.
2)
Ritorna su
questi lidi il Lupo Bianco che è stato impegnato in un’avventura iniziata su Justice Inc. #26 e la cui conclusione
deve ancora vedere la luce. Sarà amico o nemico? Solo il tempo lo dirà.
3)
Anastasia Sergeievna
Kravinova, nota negli Stati Uniti anche come Anastasia Tatiana Kravinoff o Ana
Kraven, è la figlia più giovane dell’originale
Kraven il Cacciatore e di sua moglie Aleksandra. È stata creata da Marc
Guggenheim & Phil Jimenez su Amazing
Spider-Man #565 datato settembre 2008.
Nel
prossimo episodio: il Leopardo Nero contro Vlad l’Impalatore e molto altro.
Carlo
[1] Citazione da un ottimo
film di guerra del 1977.
[2] Su Black Panther Vol. 3°#1/12 (in Italia su Cavalieri Marvel #1/12).
[3] Nei primi otto episodi di questa serie.
[4] Nel n. 20.
[5] Vedi scorso episodio.
[6] Su Fantastici
Quattro #35 e 36.
[7] Bureau of
Prisons ovviamente .
[8] Per saperne di più, leggete Marvel Knights.